Correzione di un deficit o promozione di sviluppo

Correzione di un deficit o promozione di sviluppo.

Si tratta di due modelli che possono orientare la prassi dello psicologo clinico, ed in particolare dello psicoterapista, la cui differenziazione è a nostro modo di vedere molto importante ed utile per differenziare differenti forme di prassi psicoterapeutica. Sottolineiamo che, a nostro modo di vedere, entrambe le modalità di approccio alla psicoterapia sono legittime e importanti; così come è importante, d’altro canto, la scelta di campo dell’una o dell’altra prospettiva se si vuole far chiarezza entro i modelli che compongono il variegato ambito delle psicoterapie:

  • lo psicologo orientato a ridurre un deficit, nel paziente che a lui si rivolge o nella situazione sociale entro la quale interviene,
  • lo psicologo che realizza interventi per promuovere lo sviluppo delle persone entro il loro contesto.

Pensiamo, a questo proposito, all’uso che nella psicologia dell’intervento si può fare della nozione di relazione. La relazione può essere intesa quale strumento che serve per migliorare la realtà. Oppure può essere utilizzata al fine di vedere ciò che accade al suo interno. L’interesse per la relazione, può essere orientato al fine di correggere un deficit. Oppure l’interesse per la relazione può proporsi di guardare alla relazione stessa, con l’intento di utilizzarla quale ambito di promozione dello sviluppo: sviluppo del rapporto tra psicologo e persona che a lui si rivolge; di conseguenza, sviluppo della relazione tra la stessa persona ed il suo contesto di vita e di lavoro. Ciò significa promuovere una consapevolezza ed un’evoluzione dei valori che reggono la convivenza, delle regole del gioco che la rendono possibile, in particolare di quelle regole del gioco che presiedono alla relazione tra individui, gruppi e contesto ambientale.

Correzione di un deficit, da un lato; sviluppo dall’altro, quali obiettivi dello psicologo

Nel caso della correzione di un deficit, la posizione dello psicologo clinico è quella di chi pensa di essere legittimato ad intervenire sulla base di una situazione problematica, letta quale scarto da un modello che si ipotizza condiviso e legittimato socialmente. 

Nel caso dell’intervento volto allo sviluppo, sviluppo della relazione tra psicologo e committente, così come di quella tra committente e contesto, è l’analisi della domanda che guida l’intervento dello psicologo stesso. 

Si tratta di due opzioni professionali molto diverse, fondate su ruoli, funzioni e rapporti con la domanda del committente letti diversamente, su metodologie di azione professionale distinte, con obiettivi spesso divergenti.

La riduzione del deficit è caratterizzata dalle seguenti connotazioni:

  • l’obiettivo è fondato sulla valutazione dell’altro entro la logica “modello – scarto dal modello”. Ciò significa che si guarda al comportamento, alle emozioni, ai vissuti dell’altro, valutandone la corrispondenza ad un modello di normalità, o allo scarto da tale normalità. La valutazione dello scarto dal modello può essere considerata come “oggettiva”. Quindi, l’intervento di riduzione dello scarto è legittimo nel caso in cui la domanda provenga dalla persona portatrice dello scarto, come quando è posta da altre persone del contesto: un medico, un superiore gerarchico dell’interessato, un genitore. La denuncia, la rilevazione, l’evidenza di uno scarto dal modello implicano, sempre, una relazione di potere sociale efficace, tra chi denuncia, rileva, rende evidente lo scarto, e chi ne è l’oggetto. Si può affermare che questo rapporto di asimmetria del potere è funzionale al controllo: evidenziare uno scarto dal modello e correggerlo sono espressioni di una implicita volontà di controllo sociale e di riduzione degli scarti a dimensioni conformistiche. Questo fa capire come il comportamento sia l’oggetto più rilevante di questo modo d’intervenire
  • l’intervento di riduzione dello scarto dal modello è rivolta all’individuo, al singolo individuo conosciuto attraverso categorie a contestuali. Con la stessa logica si può intervenire anche entro il contesto familiare, è vero; ma nell’ottica, è bene sottolinearlo, di trattare la famiglia come un “individuo” che scarta da un modello prefissato, del quale il terapista è il depositario
  • l’intervento di riduzione del deficit si appoggia al modello medico, assumendo lo scarto dal modello quale “malattia”, e l’intervento ortopedico (che riconduce all’ortos, alla retta via) quale terapia, quale cura della malattia, con obiettivi di guarigione. Ciò giustifica la confusione, nell’ambito della psicoterapia, tra professione medica e professione psicologica. Confusione curiosa e poco discussa, nonostante la profonda diversità, epistemologica e pragmatica, esistente nella formazione del medico da un lato, dello psicologo dall’altro. Nonostante, ancora, la fondazione biologica della prassi medica, ancorata non tanto all’individuo quanto al suo statuto biologico, corporeo; e la fondazione psicologica, appunto, della prassi psicologica, ancorata alla relazione tra individuo e contesto1
  • a fondamento del mandato sociale su cui poggia l’intervento di riduzione del deficit, s’invoca la funzione diagnostica, fondata su elenchi dei disturbi mentali quali il DSM IV° o l’ICD 10. Tali manuali diagnostici, d’altro canto, pur rappresentando uno sforzo importante, per la psichiatria, di trovare un linguaggio comune per una definizione condivisa dei disturbi mentali, non può essere di certo un buon punto di partenza per un intervento psicologico clinico. Innanzitutto, si tratta di manuali che fanno riferimento alla Psichiatria, non alla Psicologia Clinica. In secondo luogo, ed è questo un grande limite della Psichiatria e della sua pretesa di assimilarsi ad altre aree della medicina, questi manuali sono descrittivi di fenomeni, non proponendo alcuna ipotesi eziopatogenetica dei fenomeni stessi. Si sa, d’altro canto, che l’intervento medico poggia le sue basi scientifiche e la sua efficacia pragmatica sulla conoscenza eziopatogenetica di gran parte delle forme curabili della malattia. Pensare di legittimare un intervento di correzione del deficit, sulla base di diagnosi riferite alla nosografia presente in questo tipo di manuali significa, quindi, prescindere radicalmente dal vissuto del singolo sullo “scarto dal modello”; ed al contempo definire lo stesso “scarto dal modello” tramite dimensioni diagnostiche che sembrano difficilmente suggerire l’utilità dell’una o dell’altra, tra le differenti tecniche d’intervento psicoterapeutico.

L’intervento che promuove sviluppo, di contro, è caratterizzato dalle seguenti dimensioni:

  • l’obiettivo è orientato all’utilizzazione delle risorse, individuali od organizzative, che possono promuovere lo sviluppo della relazione tra individui e contesto. Questo comporta, per lo psicologo, la conoscenza del contesto, e non solo dell’individuo e delle sue dinamiche interne, al fine di orientare il suo intervento entro le coordinate, possibili, di sviluppo dei sistemi sociali. Se, ad esempio, lo psicologo interviene nell’ambito di un problema scolastico, lo sviluppo concerne l’obiettivo della scuola, il coinvolgimento dei singoli allievi da un lato, del contesto sociale su cui insiste la scuola dall’altro, quali protagonisti dello sviluppo stesso. Il perseguimento di sviluppo, in questo caso, richiede da parte dello psicologo una conoscenza approfondita degli obiettivi del sistema scolastico, e una conoscenza degli strumenti utili per la realizzazione degli obiettivi, quali le caratteristiche psicologiche dei singoli allievi e degli insegnanti, la dinamica del gruppo classe entro il quale avviene l ’apprendimento, la cultura che caratterizza quel sistema scolastico, l’insieme degli allievi, delle famiglie, e del corpo insegnante. Nel caso di una psicoterapia “individuale” si possono porre le stesse considerazioni: lo sviluppo perseguito quale obiettivo della psicoterapia concerne le relazioni della persona in psicoterapia entro il suo contesto; contesto familiare, ma anche lavorativo, amicale, sociale più in generale. Ciò comporta, per la psicoterapia, l’assunzione di obiettivi metodologici: atti a rappresentare simbolicamente, entro la relazione collusiva tra paziente e psicoterapista, lo sviluppo fondante il progetto psicoterapeutico del paziente stesso
  • non esiste un modello prefissato di sviluppo. Ciò significa che l’intervento avrà, quale sua dimensione caratterizzante, la continua negoziazione delle linee di sviluppo, entro il sistema individui – contesto, con i protagonisti che ad esso partecipano. Lo sviluppo, nell’accezione da noi utilizzata, è ciò che consegue ad un progetto. Ha quindi la storicità e la contingenza del progetto; progetto di un singolo, entro il contesto, così come progetto di un’organizzazione, di un sistema sociale
  • l’intervento che promuove sviluppo può comportare, anche, un’evoluzione dei singoli individui, in parte assimilabile alla correzione del deficit; tale processo, d’altra parte, avrà quale criterio di verifica la capacità del contesto di realizzare i suoi obiettivi, non la normalità individuale. In altri termini, si può dire che lo sviluppo individuale si realizza, sempre, entro un contesto. L’intervento in analisi, quindi, si differenzierà chiaramente, senza confusioni e sovrapposizioni, dalla terapia medica, acquisendo uno specifico valore psicologico
  • lo sviluppo può essere inteso quale modo di pensare le emozioni; in tal senso, lo sviluppo è identificabile come competenza a convivere, entro un sistema a risorse scarse. Sviluppo, in questa accezione, quale alternativa alla predatorietà che fonda la relazione di possesso. Si parla, nell’ambito della sociologia delle organizzazioni e dei sistemi sociali, di sviluppo compatibile. In quest’espressione si fa riferimento ai costi ambientali dello sviluppo, non alla competenza dei gruppi sociali, necessaria per realizzare questa “compatibilità” tra esigenze personali, condivise socialmente da un lato, e sistema contestuale dall’altro. Con l’espressione “competenza a convivere entro un sistema a risorse scarse”, di contro, si indicano le coordinate che definiscono la competenza psicologica a realizzare sistemi di convivenza capaci di guardare alle risorse in chiave di sviluppo, non di distruzione2
  • la contrattazione tra psicoterapista e paziente sul progetto di sviluppo. La psicoterapia, in questo caso, non ha un obiettivo dato dalla fase diagnostica, e non si confronta con un processo lineare, predefinito. Di contro, l’obiettivo è continuamente oggetto di contrattazione tra psicoterapista e paziente, man mano che il paziente acquisisce nuove categorie per designare il suo problema. Tale contrattazione costruisce la relazione psicoterapeutica in quanto espressione della dinamica emozionale che organizza o ostacola lo scambio.

Prendiamo ora in considerazione l’individuo e la relazione, quali differenti unità d’analisi per lo psicologo clinico e per lo psicoterapista.

La prospettiva individuale e quella relazionale comportano due differenti modelli della  relazione:

  1. la relazione può essere intesa quale antecedente (ad esempio la relazione con le figure genitoriali) che comporta specifiche conseguenze sui singoli individui; conseguenze che sono usualmente definite entro le categorie di normalità – patologia
  2. la relazione può essere intesa quale oggetto e strumento della psicoterapia o dell’intervento psicologico. In tal caso è la relazione che motiva il ricorso allo psicologo; quest’ultimo interviene attraverso la relazione, e con una teoria della tecnica che orienta l’uso della relazione. Quest’ultima è anche l’oggetto dell’intervento, il luogo entro il quale si organizza la verifica dell’intervento stesso.

Che gli individui siano l’esito delle relazioni familiari originarie e che la loro personalità, le loro caratteristiche individuali e differenziali siano la risultante di tali relazioni, la psicologia lo ha affermato ripetutamente e con forza. L’importante non è tanto questo, quanto il vedere se l’unità d’analisi della psicologia sia l’individuo (inteso quale esito delle sue relazioni), o sia piuttosto la relazione in sé. Quando l’individuo è l’unità di analisi di chi fa ricerca o intervento in psicologia, la relazione tra individuo e sistema sociale può essere sintetizzata entro le due seguenti eventualità:

a – l’individuo “sarebbe in grado” di perseguire la felicità, di realizzare le sue aspettative e i suoi desideri, sapendo ciò che vuole, se non dovesse confrontarsi con i limiti che il sistema sociale gli pone: limiti costrittivi, che vincolano e frenano la realizzazione personale;

b – l’individuo avrebbe “la necessità” di un rapporto sociale, e sarebbe disposto a subire i limiti e la sofferenza che la relazione comporta, pur di soddisfare questo suo bisogno “primario”, ancora una volta sapendo ciò che vuole.

Nell’un caso come nell’altro, si pone una netta distinzione tra individuo e sistema sociale, visto quest’ultimo come “altro” rispetto all’individuo stesso. L’individuo, inoltre, è dotato di aspirazioni, desideri, aspettative e spinte a soddisfare quanto egli desidera “individualmente”; il sistema sociale è visto in un caso quale limite, in un altro quale strumento facilitante la realizzazione delle aspettative individuali.  

Ciò che caratterizza questa nozione di individuo, è la convinzione che egli sappia ciò che vuole, ed anche ciò che desidera. Si è convinti, si crede fermamente che il desiderio sia chiaro all’individuo, che ne fondi il comportamento e che ne orienti le emozioni. Questa ipotesi, capace di regolare la relazione tra individui e sistema sociale, sembra ignorare radicalmente il contributo della psicoanalisi, ove l’individuo non sa ciò che vuole, almeno entro la sua dimensione emozionale. Affermare che le persone non sanno ciò che vogliono, significa fondare la polisemia emozionale del desiderio e delle emozioni. Non si tratta, quindi, di contrapporre coscienza ad inconscio. Quanto di mettere in rilievo la primaria importanza del modo di essere inconscio della mente quale modo emozionale di simbolizzazione della realtà. Stiamo parlando della contrapposizione tra prima e seconda topica della proposta freudiana. La psicoanalisi contemporanea sembra aver, in gran parte, rinunciato alle profonde e interessanti intuizioni della prima topica, per seguire un sistema mentale intrapsichico che ha, via via, annacquato il modo di essere inconscio della mente; sino a farne qualcosa che assomiglia troppo all’inconscio cognitivo, svuotando di senso l’intuizione psicologica di Freud. Non è un caso che due studiosi “italiani” della psicoanalisi quali Franco Fornari e Ignazio Matte Blanco siano stati ignorati per lungo tempo e solo recentemente ricordati, più dagli studiosi delle scienze sociali che dagli psicoanalisti ortodossi. Fornari e Matte Blanco avevano, a loro modo, sottolineato l’importanza del sistema inconscio quale modo della mente, quale dimensione fondante la dinamica affettiva nella relazione tra individui e contesto. 

Può essere interessante notare che le due prospettive ora delineate (individuo che potrebbe realizzare i suoi desideri se non vi fosse il limite del sistema sociale; individuo che ha bisogno della relazione, ed è disposto a soffrire pur di soddisfare questa sua esigenza) fondano specifiche dimensioni che abbiamo in altri lavori definite quali neo-emozioni: pretendere, controllare, diffidare, provocare, obbligare, lamentarsi, preoccuparsi. Si tratta di dinamiche relazionali, comprensibili entro l’emozionalità che organizza e fonda la relazione, ove è centrale la negazione dell’estraneità dell’altro; quella estraneità che consentirebbe lo scambio tra estranei e quindi l’integrazione produttiva della diversità.

Manca, nella prospettiva prima evidenziata, che contrappone individuo e sistema sociale, la visione produttiva della relazione che fonda il sistema sociale stesso: produzione di valori, di regole del gioco, di cultura della convivenza e di modi di relazione con il contesto sociale ed ambientale. Questa funzione di produzione, fondante il sistema sociale quale sistema di convivenza, storicamente e culturalmente definito, nonché differente nelle diverse culture, viene sacrificata nella visione individualista: dove il sistema sociale è “dato” acriticamente, e dove la funzione psicologica viene ridotta ad una prassi volta a definire le differenze individuali: con l’obiettivo di presiedere ad esse in una prospettiva ortopedica, di riconduzione alla retta via di chi si presenta alla diagnosi quale deviante. Differenze individuali che lo psicologo, quasi senza accorgersene, rischia di considerare come “naturalmente date”3; spetta quindi agli psicologi, in questa visione della professione e della scienza psicologica, individuare (appunto), diagnosticare ed eventualmente, quando ciò sia possibile, correggere queste caratteristiche individuali; nel caso in cui la correzione non sia possibile, lo psicologo pensa di avere il potere, delegatogli dal sistema sociale, di selezionare gli individui, al fine di un buon funzionamento sociale.    

Quando l’oggetto della psicologia è l’individuo, ne conseguono differenti ed interessanti dimensioni:

  • nel caso dell’individuo, alla domanda ed alla sua analisi viene sostituita la diagnosi delle caratteristiche stabili delle quali l’individuo è portatore. Portatore inconsapevole, evidentemente, tanto è vero che egli ha bisogno dello psicologo per avere una diagnosi dei suoi problemi/disturbi
  • l’individuo è problematico, quindi, indipendentemente dalla sua “volontà”. Non serve che una persona sia consapevole del suo problema; serve solo che accetti di subire diagnosi e terapia. Ciò comporta un elevatissimo potere in chi ha le categorie e gli strumenti per decidere se una persona è normale o patologica
  • la ricerca scientifica propone dei tipi, differenziati sulla base di specifiche evidenze sperimentali. Sta al potere dello psicologo decidere quali di queste caratteristiche siano “normali” e quali siano “patologiche”. Ad esempio, lo stile d’attaccamento può essere visto quale difesa del bambino nei confronti delle evenienze problematiche vissute nel rapporto con la madre. In tal caso il così detto “attaccamento insicuro” sarebbe una risorsa adeguata, come l’”attaccamento sicuro”, in funzione del diverso modo che assume il rapporto tra bambino e madre. Oppure può essere visto quale caratteristica stabile dell’individuo, che si ripete fissa ed immutabile per tutta la vita dell’individuo, con capacità di riproduttività legate alla stabilità delle caratteristiche entro la funzione di cura della prole. E’ molto importante sottolineare questo passaggio, perché l’evidenza sperimentale non ha il potere logico o storico di definire le potenzialità adattive dei differenti tipi; né in termini sincronici né diacronici. Anzi, si potrebbe dire che l’adattamento umano è avvenuto, sino ad ora, anche grazie alla differenziazione dei gruppi sociali e delle caratteristiche individuali
  • con l’individuazione (appunto) delle caratteristiche individuali, e con un intervento psicologico fondato sui tali caratteristiche, si perde il senso dell’interazione sociale e della fenomenologia culturale entro la quale ogni individuo è necessariamente ed indissolubilmente iscritto
  • la cultura è considerata quale “dato” che forma e determina l’evoluzione degli individui che alla cultura stessa appartengono. Viene così destrutturato e perso ogni approccio costruttivista alla fondazione delle dimensioni culturali
  • manca una teoria del legame sociale quale fondamento di una lettura psicologica della relazione tra individuo e contesto.

E’ quest’ultimo punto che può indirizzare un approccio volto a promuovere sviluppo.


Note

1. E’ sempre più frequente l’uso dell’espressione che definisce l’individuo, considerato entro la psicologia, quale unità bio – psico – sociale. Vorremmo ricordare che la psicologia generale, nella sua lunga storia di ricerca, di proposte teoriche, di costruzione epistemologica, non ha mai parlato di individuo. Oggetto di studio della psicologia, ricordiamolo, è sempre una fenomenologia che concerne la relazione tra individuo e contesto. Si potrebbe dire, anche, che l’inaugurarsi di una psicologia generale individuale si è avuta con la seconda topica freudiana (non con la prima, ed è importante sottolinearlo), là dove si è iniziato a considerare una realtà intrapsichica univocamente ed acontestualmente considerata, orientata dalle “forze” dell’Io, dell’Es e del Super-Io; istanze psichiche che hanno ridotto le vicissitudini della vita mentale a processi “totalmente” intrapsichici. Torna su

2. Fornari, a questo proposito, parlava di sistemi fondati sulla logica “mors tua, vita mea”, contrapposti a quelli fondati sulla logica “vita tua, vita mea”, ove compare la reciprocità simmetrica. La nozione di sviluppo può essere intesa quale accrescimento, senza limiti né remore, di un progetto personale, di una competenza, ma anche di un’economia, di un’organizzazione.  Questa nozione può essere interessante anche per definire i “limiti” dello sviluppo personale, all’interno di un’esperienza psicoterapeutica: ad esempio la terminabilità di un processo conoscitivo di sé o la relazione tra sviluppo psicoterapeutico e costi dello stesso. Torna su

3. Ricordo un recente articolo di Gad Lerner: “In quel suo parolaio sentirsi già in guerra […] risuonano gli echi della “nouvelle droite” europea che non celebra più la superiorità razziale, ma insiste sulla “naturale” differenza tra gli esseri umani.” Lerner G. 2005, Io, meticcio immigrato che Pera non vuole, la Repubblica, 30, 198, 1-17. Torna su